L’estate è tempo di vacanze e di gite fuori porta. Strade e sentieri che percorrono le nostre montagne si affollano di turisti e amanti della vita all’aria aperta. Ma vi siete mai chiesti come la fauna selvatica reagisca alla presenza o al passaggio dell’uomo? Le attività antropiche, il turismo e il traffico di veicoli su strade forestali avranno un impatto sulla distribuzione e il comportamento della fauna che storicamente popola i nostri boschi? E se sì, l’effetto sarà uguale su tutte le specie? E con che intensità?

L’areale dello studio, con evidenziate in nero le località di fototrappolaggio (la dimensione dei pallini indica la frequenza di campionamento dell’orso bruno)

A queste domande hanno cercato di rispondere i ricercatori del MUSE e del Servizio foreste e Fauna della Provincia di Trento, con un lavoro che è stato recentemente pubblicato nella rivista internazionale Mammalian Biology. Lo studio ha interessato un’area di circa 220 km2, situata intorno al settore meridionale del gruppo montuoso delle dolomiti di Brenta. Questa è stata scelta in modo da cadere nella core area dell’orso bruno (territorio stabilmente occupato dalle femmine), oltre ad essere rappresentativa dell’eterogeneità del nostro territorio e più in generale dell’ambiente alpino odierno, che si presenta come un intreccio di natura e attività umane strettamente interconnesse. Per studiare le specie di interesse, tra cui il grande plantigrado, ungulati e mustelidi, è stata utilizzata la tecnica del foto-trappolaggio. Le foto-trappole sono macchine fotografiche che vengono posizionate e lasciate per un periodo di tempo in determinati siti e scattano in automatico al passaggio di soggetti, grazie ad un sensore di calore e movimento. Questi utilissimi “occhi nella foresta” possono accumulare una mole notevole di informazioni, di giorno e di notte, arrecando il minimo disturbo alla fauna selvatica. In due mesi di campionamento estivo, nel corso dell’estate 2015, sono state ottenute quasi 10.000 immagini di fauna selvatica e più di 15.000 relative all’uomo, dagli escursionisti ai veicoli.

Con questi dati i ricercatori hanno tentato di indagare l’effetto del disturbo antropico sulle specie in due dimensioni: spaziale e temporale. A livello spaziale significa studiare come le specie si distribuiscano sul territorio in relazione a specifici fattori, come la distanza dai centri abitati o il numero di passaggi umani. Un passo successivo sta nel valutare quali fattori influenzino invece la probabilità, la facilità, con cui una specie può essere osservata nelle aree in cui è presente. Questa probabilità può dipendere da fattori comportamentali o biologici, tipici di ogni specie, o dal momento e dal metodo con cui si va a “cercarla” sul territorio. La dimensione temporale interessa invece l’analisi dei ritmi di attività giornaliera, che permette per esempio di classificare una specie come diurna o notturna o di valutare eventuali variazioni nell’attività della fauna in risposta a differenti livelli di disturbo antropico.

I tempi di attività dell’orso bruno sono complementari a quelli dell’attività umana: la linea tratteggiata blu indica la frequenza di fototrappolaggio di esseri umani in una certa ora, quella nera continua di orsi

I risultati suggeriscono che l’orso bruno sia una delle specie più condizionate dalla presenza dell’uomo, che cerca di evitare sia a livello spaziale che temporale. Lo studio evidenzia come la probabilità di incontro si riduca notevolmente all’aumentare del passaggio umano e in prossimità dei centri abitati, confermando una tendenza generale alla “timidezza” nei confronti dell’uomo. Anche i suoi ritmi di attività giornaliera tendono a sovrapporsi il meno possibile con i nostri: pur trattandosi di una specie originariamente diurna, in Trentino come in altre aree europee gli orsi si sono adattati alla presenza umana e si comportano come specie crepuscolare (si muovono principalmente nelle ore prossime ad alba e tramonto) se non addirittura notturna.

Altre 7 specie sono state analizzate singolarmente, confermando conoscenze e portando elementi nuovi su cui sicuramente varrà la pena di indagare in futuro. Il programma di monitoraggio da cui nasce questo studio, che è unico in Italia e sull’intero arco alpino, fa parte infatti di una convenzione tra il MUSE e la Provincia Autonoma di Trento per un monitoraggio della fauna selvatica a lungo termine.

Per approfondire

Oberosler, V., Groff, C., Iemma, A., Pedrini, P. and Rovero, F., 2017. The influence of human disturbance on occupancy and activity patterns of mammals in the Italian Alps from systematic camera trapping. Mammalian Biology-Zeitschrift für Säugetierkunde87, pp.50-61. http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1616504717301829

Box relativi al programma di monitoraggio sistematico si trovano rispettivamente a pag. 6 del Rapporto Orso 2015 e pag.7 del Rapporto Orso 2016. https://orso.provincia.tn.it/Rapporto-Orso-e-grandi-carnivori

La conferenza EURING 2017 si è svolta a Barcelona, Spagna, presso il Natural History Museum.

Tale conferenza è primariamente focalizzata sullo sviluppo, comprensione e integrazione di nuove metodologie di analisi di dati di cattura-marcatura-ricattura (CMR), utilizzati comunemente per stimare parametri delle popolazioni animali. Questa volta la conferenza ha inoltre trattato lo sviluppo e l’applicazione di metodi similari a quelli di CMR, utilizzati per trattare dati d’individui non marcati (o comunque non distinguibili singolarmente). Questi metodi (occupacy e N-mixture models) sono principalmente utilizzati per studiare le variazioni nella distribuzione e/o numero d’individui nello spazio e/o nel tempo.

Un programma dettagliato della conferenza è disponibile qui.

La nostra presentazione orale, dal titolo ‘Modelling density-dependent population growth rate from individual encounter data‘ era all’interno della sessione ‘Population Dynamics and Dispersal’. Il lavoro presentato è stato svolto in collaborazione con Giacomo Tavecchia e Daniel Oro del Population Ecology Group dell’IMEDEA (CSIC-UIB, Spagna), e con Roger Pradel del CEFE/CNRS (Francia).

Photo: Ana Sanz-Aguilar

Con il nostro contributo abbiamo presentato una nuova formulazione del cosidetto temporal symmetry approach (anche noto come Pradel model, e implementato anche all’interno del programma Mark) che consente di testare e quantificare fenomeni di densità dipendenza direttamente sul tasso di crescita (population growth rate) di una popolazione aperta (cioè in presenza di nascite/morti, emigrazione/immigrazione) utilizzando solo dati di CMR (quindi senza avere conteggi degli individui presenti nella popolazione!). In aggiunta, l’approccio analitico presentato permette di stimare la varianza temporale non spiegata dalla densità dipendenza, e può quindi essere utilizzato per quantificare il contributo relativo di fattori intrinsici (legati alla densità dipendenza) ed estrinsici (densità indipendenti) che influenzano le fluttazioni delle popolazioni animali.

Il metodo è stato prima validato con dati simulati, per valutare la performance del modello nel quantificare effetti di densità dipendenza sulla population growth rate, e successivamente applicato a dati di una popolazione di Gabbiano corso studiata nel delta del fiume Ebro (Spagna) dal Population Ecology Group dell’IMEDEA.

Tale metodo risulta particolarmente utile per valutare la relazione fra densità d’individui e tasso di crescita di una popolazione animale. L’applicazione del metodo è inoltre rilevante dal punto di vista conservazionistico per le popolazioni che non possono essere facilmente censite. In questo caso infatti il tasso di crescita non viene derivato dal numero di animali/coppie riproduttrici censiti, ma da dati di CMR. Sono in programma due applicazioni a specie di particolare interesse conservazionistico: (i) la lucertola della Baleari (Podarcis lilfordi), minacciata ed endemica dell’arcipelago, e (ii) l’orso bruno con la popolazione presente nelle Alpi centrali. In quest’ultimo caso il metodo presentato all’EURING 2017 permetterà di studiare gli effetti della variazione nel tempo della densità d’individui (in particolare femmine) sui tassi di crescita della popolazione.

I biologi della conservazione identificano le “specie bandiera” (flagship species) con quelle specie carismatiche che affascinano e coinvolgono il grande pubblico, e quindi possono essere utilizzate come simbolo per ispirare azioni di conservazione in senso più ampio, cioè a livello di comunità, ecosistema o addirittura bioma. Classiche “bandiere della conservazione” sono i grandi mammiferi minacciati, come il panda, la tigre o il bisonte europeo.

Le specie bandiera quindi possono essere utilizzate come leva per la tutela di biotopi e ambienti, ma come è possibile utilizzare una o più specie bandiera in quelle aree del mondo dove i grandi animali carismatici non ci sono più da tempo?

Tipicamente, queste aree coincidono con quelle in cui i cambiamenti ambientali causati dall’uomo sono più evidenti e hanno comportato una forte perdita di biodiversità. Un classico esempio a livello europeo è rappresentato dalle aree coltivate. Gli agroecosistemi, infatti, sono spesso percepiti come privi di specie di interesse naturalistico, anche se nel Vecchio Continente una porzione consistente di biodiversità sopravvive in aree dedicate all’agricoltura.

In questi ambienti, anche in quelli più intensivi, conservare la biodiversità è una priorità per realizzare la sostenibilità, che è una condizione sempre più richiesta anche dai consumatori.

Una strada possibile per raggiungere questo obiettivo è quella delle specie bandiera “non tradizionali”, una definizione proposta nel 2000 dalla biologa della conservazione Abigail Entwistle [1], che ha avuto purtroppo scarsa applicazione in seguito, almeno stando alla letteratura di settore. L’idea di fondo è però semplice ed efficace: quasi qualsiasi specie, se adeguatamente presentata ai cittadini e fatta conoscere, può funzionare da bandiera per la conservazione!

Con questo obiettivo, nel nostro recente lavoro pubblicato sulla rivista Ecological Indicators [2], abbiamo valutato le esigenze ecologiche di due specie di uccelli, il codirosso comune Phoenicurus phoenicurus e il pigliamosche Muscicapa striata nei vigneti, una coltivazione dall’elevato valore economico e in espansione in Trentino come nel resto d’Europa.

Queste due specie hanno alcune caratteristiche rilevanti: sono presenti diffusamente nei vigneti, sono appariscenti o per colorazione (il codirosso comune) o per comportamento (il pigliamosche) e sono quindi facili da osservare e soprattutto sono insettivore, quindi possono essere utili alleate dei viticoltori per tenere sotto controllo gli insetti dannosi per le coltivazioni.

La ricerca condotta ha permesso di evidenziare che il pigliamosche è più abbondante nei vigneti tradizionali a pergola (anche intensivi), mentre tende a evitare le piantagioni a spalliera o troppo giovani, che non sono sufficientemente strutturate per ospitarne il nido. Il codirosso comune tende invece a selezionare i settori di versante, che presentano una viticoltura meno intensiva e conservano alcuni elementi agricoli tradizionali, come siepi, filari, muretti a secco e piccoli edifici rurali isolati, che la specie -che necessita di cavità per costruire il nido- apprezza.

In due lavori precedenti sugli uccelli dei vigneti trentini, avevamo già mostrato come questi stessi elementi che favoriscono codirosso e pigliamosche siano importanti anche per avere comunità di uccelli più ricche e diversificate e favoriscano l’abbondanza delle specie più comuni che si trovano in questi ambienti [3,4].

Sulla base di queste evidenze, nell’articolo recentemente pubblicato, proponiamo il pigliamosche e il codirosso comune come ideali specie bandiera non tradizionali nei vigneti trentini, in particolare la prima nei paesaggi viticoli più intensivi del fondovalle, mentre la seconda in quelli più estensivi di versante.

Fonti citate:

  1. Entwistle A. Flagship for the future. Oryx. 2000;34: 239–240.
  2. Assandri G, Bogliani G, Pedrini P, Brambilla M. Insectivorous birds as “non-traditional” flagship species in vineyards: Applying a neglected conservation paradigm to agricultural systems. Ecol Indic.; 2017;80: 275–285. Link all’articolo sul sito della rivista
  3. Assandri G, Bogliani G, Pedrini P, Brambilla M. Diversity in the monotony? Habitat traits and management practices shape avian communities in intensive vineyards. Agric Ecosyst Environ. ; 2016;223: 250–260.
  4. Assandri G, Bogliani G, Pedrini P, Brambilla M. Assessing common birds’ ecological requirements to address nature conservation in permanent crops: Lessons from Italian vineyards. J Environ Manage. 2017;191: 145–154.

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